Presentazione della mostra alla galleria S. Marco dei Giustiniani - Genova, 1975
È stato René Huyghe ex conservatore del Louvre, a ricordare, nel suo libro “Dialogue avec le visible”, una famosa lettera, scritta da Poussin a Chanteloup il 24 novembre 1647, nella quale dichiarava che “nei diversi soggetti da lui trattati, non cerca soltanto di rappresentare sui volti dei suoi personaggi passioni conformi alle azioni che essi compiono, ma anche di eccitare a far nascere quelle stesse passioni nell’anima di chi vede i suoi quadri”.
Come dire che, molto prima di Delacroix e di Ingres, l'”ideale” dell’artista poteva essere indicato non tanto nella descrizione quanto nella possiblità evocativa e in quella di predisporre ad una data condizione sensibile. Non è casuale qui, in sede di presentazione della mostra di Nino Lupica, la citazione di Poussin poichè la sua teoria dei “modi” aveva intuito la risonanza ideativa, intellettuale, che era opportuno immettere all’interno del procedimento del far arte affinchè una cosa, un avvenimento, conservasse la propria essenza. Naturalmente se dovessi rintracciare un artista nel quale ritrovare quella stessa illuministica disperazione (accomunata ad una indubitabile denuncia morale dell’angosciosa violenza oggi in atto) che leggo nei quadri recenti di Nino Lupica, chiamerei in causa ancora il Delacroix de Il massacro di Scio o il Goya de I disastri della guerra o del Saturno , ovvero un qualcuno la cui immagine, compiuta sul vero, è tuttaltro che una proiezione illustrativa. Come Delacroix e Goya, Lupica – considerando lo spostamento dei termini linguistici provocati dalla interpretazione iconografica dei coinvolgimenti e dei trapassi storici – illumina, con estrema partecipazione, il senso e la dimensione della scena, affinchè chi la guarda, possa, anzi debba, trarne da testimone e in modo immediato il tumulto acceso da quelle ragioni e da quelle ideologie che supportano il delitto. E ciò perchè il pittore Lupica lavora sull’immagine e con l’immagine trasporta idee; idee che, attraverso l’intelligenze e il giudizio, coinvolgono tutta l’esperienza creativa, emozionale e razionale.
Le sue Immagini per la storia di un popolo, infatti, stanno si nell’aria e negli accidenti di una figurazione nuova capace di promuovere (come già altri, Cesana, Fezzi, Mascherpa, hanno bene intuito) una analisi esistenziale sul vivo, ovvero distaccata dall’abituale registro della memoria e del simbolo, ma anche trovano un buon arco di sostegno in quella mescolanza di sensazioni provocate dalle cose e dai fatti e dalla riflessione sulle cose e sui fatti sollecitata da una consapevole scelta ideologica. E’ questa scelta, di fatto, che taglia l’acutezza dello sguardo di Lupica, sguardo di un’ottica che non tiene conto soltanto dei dati casualmente raccolti ma che penetra “oltre” le condizioni di visibilità, al di là della registrazione dell’involucro, per rimettere il confuso pullulare di oggetti ridotti a piccolissimi frammenti di realtà, il brulichio di immagini, nella “durata”, nella persistenza di una azione condensata dalla luce (che domina con lo stacco di un obiettivo fotografico che svolge in sequenze come isolate i particolari dall’alto).
Certo ha ragione Elda Fezzi quando avverte che “nel contesto greve d’ombre, prodotto da Lupica, si annoda in spessori quasi viscerali, più da stomaco che da memoria idealizzante, il movimento quasi informe di un avvicendarsi di parvenze; per cui brandelli di immagini sono involti in una materia pesante, come polvere di ferro e di piombo che ora fagocita, ora rigetta quelle sigle lampeggianti di cose, uomini e scritte denuncianti”. (Nac 1971)
Tuttavia c’è, a mio avviso, un problema in più, fondamentale, da affrontare nell’opera di Lupica: l’affidamento al quadro dell’effetto complessivo (ottenuto dall’assommarsi dei particolari sensibili della realtà nella retina e travasati con apprezzamento soggettivo nella pittura) che apre l’immediato dell’impressione ad una risonanza visiva capace di prolungrare, come un’eco per l’occhio, la consumazione percettiva della scena sino alla sopportabilità del dramma e all’accoglimento del dolore. Perchè brulichio, parvenze, brandelli, non hanno di fatto pace nella “consumazione”, nello spazio aperto all’appassionato agitarsi, ne si risolvono, catarticamente, nella coscienza ma, con tragica effervescenza, continuano a espugnare schiume di violenza e a chiamarci in causa, protagonisti di una follia che tende alla morte e insieme la annuncia.
E’ su questa riflessione che la figurazione di Lupica, la sua pittura, la parte di sensibilità che riserva a chi vede i suoi quadri, andrebbero ora riesaminati. Ripartendo da quella consapevolezza che le sue opere infine ci lasciano: in arte, come nella vita, non si può essere neutrali.