Presentazione del Catalogo Premio Marche 1997 - Biennale d’arte contemporanea - Ancona
Con Nino Lupica si ha la rappresentazione dell’identità di arte e poesia. Ha scritto Mario Luzi: “Nino Lupica ama cimentarsi con opere letterarie esemplari: Dante, Baudelaire, per esempio. Non si tratta di esornazioni pretestuose o di immagini “a latere”. La forza di compenetrazione nella sostanza poetica dei testi è in lui rapinosa. L’impatto e poi l’assunzione come suo proprio dramma del nucleo vivo di quei capolavori sono addirittura travolgenti. Questo non significa affatto che Lupica si butti alla cieca, su impulso immediato, in un’avventura non preveduta e tentacolare”, spiega Luzi, “al contrario vuol dire che l’intensità di pensiero e di immaginazione accesa dal testo dell’opera è tanto profonda e forte da catturare integralmente la sua esuberante inventiva. Questa – scrive Luzi – si manifesta come energia di un linguaggio prevalentemente interiore, pur essendo di specialissime risorse cromatiche e grafiche e, perché no, connotative. L’interiorità di Lupica è allo stesso tempo meditativa e impetuosa”.
È significativo che a Campione d’Italia, nel 1991, l’artista ordinò una mostra dall’indicativo titolo: “Poesia dipinta o la parola disegnata” presso il locale Museo d’Arte Moderna. In Lupica fin dagli anni dell’amicizia con Quasimodo – cui dedicò una mostra nel 1964 alla Casa della Cultura a Catania, dove nella vicina Scordia nacque nel 1938 – fu chiaro che la pratica artistica doveva vivere in contesto con la scrittura poetica. E così negli anni Lupica ha tradotto in immagine i racconti e i sazi silenzi dei versi – dal Manzoni a Luzi, da Baudelaire a Joyce.
Una elettricità smuove sabbia e acque, venti e pulsioni intrinseche al corpo dell’immagine.
Le macchie e le sbavature della scrittura come da inchiostro in penna d’oca (una Adele H. grafomane che fa diventare acquarelli – del padre scrittore – la propria grafia) sono dilatate, sono ingrassate, rese stratificate nei panni intersecatesi a definire un agglomerato quasi da nuvola postinformale. Una “pittura grafologica” la si potrebbe definire. Che si arrovella e si contorce come un corpo da santo tridentino, da disegno-studio di un accidioso eppure dolcissimo Michelangelo innamorato – in Sapienza – di Vittoria Colonna. E così si è benissimo espresso Raffaele De Grada: “Alieno dal concetto di arte come decorazione, Lupica si immedesima soprattutto nel disegno dipinto in quello cioè che chiamiamo “gouache”. Gouache in quanto a Lupica l’inchiostro bagnato suggerisce una quantità di variazioni, qualcosa che va sempre oltre il tema affrontato, il guazzo è per lui come la terra per un vasaio che non sa mai quale sarà l’effetto di una modellazione ma sa sempre dove arrivare e dove fermarsi”.
E Alberigo Sala così si è espresso: “Lupica (…) corrode e stimola la materia pittorica, lo scorrere e il fissarsi dell’umore tenero e acidulo delle muffe, delle abrasioni e contaminazioni in un dibattito fra termini supremi ai confini dell’espressione”.
Lo specifico delle odierne opere – eseguite quali “pitture-sculture”- ha fondamento nelle trascorsi storiche stagioni dell’espressionismo post-informale, tra il 1976 e il 1989, in seguito alle riminescenze da cultura di “Corrente”, con le opere definite del “realismo esistenziale”. Quel che Luzi definisce “il furor di Lupica” si inerpica per un approfondimento del “principio cosmico (che) si risveglia in questi vigorosi grovigli di nerore che mutano di tavola in tavola – scrive Mario Luzi – il proprio epicentro, la lotta intestina dell’Universo ha aspetti instabili o mutevoli e Lupica li assume profondamente nel suo forte, elegante linguaggio, ne è succube e signore mediante lo stile e la maestria del tratto.”
Le linee allora sono ora solidificate: corda e tessuto, ordito di arazzo a tradurre gli orditi dell’inchiostro bagnato, capovolgendo il monocromo in accezione di cromatico squillare: pittura- voce e pittura solidificata, pittura-scultura. L’ordito dei segni ha preso a lievitare, ha affascellato di muscoli lo scheletro del disegno, l’anima della scultura, e ha sortito l’anatomia della pittura-tessitura-scultura. La pittura diventa aggettante dalla superficie e la spazialità è un vuoto da ricolmare, saziare. Energia dello spazio e spazio come, dunque, campo magnetico, di filamentosa energia e serpentineggiare per il proprio tempo-spazio.
La pittura-scultura viene a visulaizzare l’identità della pittura-poesia. “in alcuni suoi dinamici tortiglioni – scrive Mario Luzi – semifigurati, affollati comunque di anima, il movimento è insieme discendente e ascensionale: si è indecisi se il culmine dell’immagine è la cupola del cielo, l’ingresso della Candida Rosa oppure il boccaporto di Lucifero. Trovo che pochi artisti abbiano come Lupica non illustrato o commentato ma assunto come proprio il tema del processo stesso del suo autodefinirsi”.
Tra De Grada e Luzi, di Lupica si è ben messo in evidenza la ricerca delle ragioni profonde della natura, della storia, della poesia. L’arte diventa così una porta traverso cui mirare e conoscere gli sconfinati paesaggi dello stato originario.
Così come la designazione al Premio Marche, da parte di Luzi, (…) accompagna il lungo e articolato sodalizio che vive in Luzi e nella sua poesia, con gli artisti e la loro arte.
Così Lupica (…) si pone all’interno di un’unica affermazione di essere “nel viaggio di Luzi”, la risposta che si poneva il poeta, declamando di Simone martini il Viaggio terreste e celeste del 1994; la domanda del cosa illumina il vedere dell’arte. Ed ecco, forse si può nominare una sorta di risposta: l’arte e la poesia illuminano la religiosità del cammino, quel “Viaggio” che comunque è sempre e soltanto un “pellegrinaggio” verso una privata – o pubblica – Emmaus, là dove “riconoscendolo” possiamo anche riconoscere il nostro nome. L’arte e la poesia aiutano a definire il nome, ovvero l’identità del reale. L’altissima lezione di Luzi amico degli artisti è una lezione impartita sui temi dell’ascolto, dell’umiltà del vedere e del comprendere, che sono le coordinate in cui si esprime la sapienza del Poeta. E, insieme (…) tutti noi siamo grati a Luzi per il suo “viaggiare”, per la sua poesia.