Critica | Paolo Levi

LEVI
Rivelazioni, Torino, 19 novembre 2009
È indubbio che per affrontare un’opera d’arte, sia essa pittorica o plastica, non ci si può attenere a un’unica tipologia di lettura. Non sono più questi i tempi in cui l’indagine si svolge in un’unica direzione: solo venti anni fa la critica cosiddetta militante operava lungo un’unica direzione semplificando, in modo direi dogmatico, la lettura. C’era il critico marxiano che parlava solo di contenuti legati al sociale, o quello di corrente idealista, propenso a rivelare dell’opera solo la visione più nascosta della sua laica spiritualità. Nel nostro tempo ormai privo di barriere precostituite, la composizione pittorica o il costrutto plastico devono essere affrontati in un’ ottica più vasta, considerando anche il fatto che certe tecnologie applicate all’arte visiva hanno prodotto profondi mutamenti sia formali che contenutistici, di cui chi ne scrive deve tenere conto. Nino Lupica, che è egregio pittore, scultore e incisore, in questi suoi recenti lavori usa come mezzo espressivo l’immagine fotografica, avvertendoci che il mondo che ci circonda e che siamo usi definire naturale, è anch’esso opera d’arte, in quanto immanenza di una divina intenzione creatrice. In questo senso la bellezza naturale già comprende in sé l’idea stessa di arte, preludendo al lavoro dell’artista, che coniuga la sua sensibilità con l’abilità tecnica nell’utilizzo sapiente ed emotivo dei pigmenti o dei materiali scultorei. Esiste un luogo sulla costa spagnola, da Cap de Tossa a Punta d’Escars e da Mar Menuda a Cala Bona, dove l’erosione dell’acqua e del vento ha inciso le rocce in forme di ineguagliabile bellezza. Da questo paesaggio di rocce intenso e vergine, Nino Lupica ha tratto ispirazione per realizzare queste immagini suggestive, dove un singolo agglomerato viene scelto e rilevato visivamente come oggetto in sé, assumendo il significato di una scultura capace di emanare espressività e richiami allusivi a forme riconoscibili. Dal punto di vista squisitamente tecnico si tratta di elaborazioni digitali riportate sulla tela; quanto al modo dell’artista di contemplare, rilevare e rielaborare le forme della pietra, si tratta di un gesto poetico che si traduce in un messaggio non solo estetico, ma anche etico. È qui infatti esplicitato un fremente ammonimento, un invito al rispetto e alla salvaguardia di un ambiente che appare come il paradigma di un onnisciente e predittivo progetto divino, di cui la creatività umana appare solo come una pallida reiterazione e imitazione. In questo caso quindi non ci si può lasciare sedurre dalla sola apparenza: nella sua libertà creativa di artista interdisciplinare, Lupica ci avverte che ogni particolare del Creato, a livello di percezione visiva, non è un unicum da accogliere in una definizione legata all’immagine primaria. Al contrario, se troviamo la disponibilità d’animo di rifiutare la presunta razionalità del nostro sguardo e di non porre steccati ideologici fra noi e le immagini, avremo la possibilità di entrare in territori sconosciuti e di allargare la nostra interpretazione, esplorando microcosmi del tutto inaspettati. Non a caso Nino Lupica rimanda la sua ricognizione paesaggistica alla scoperta del luogo dei luoghi, dove non c’è cosa di cui non si possa dire che non sia. È il luogo dove il dolore è incatenato alle pietre che ci portano a coniugare la seduzione della natura, l’accumulazione dei segni, l’alchimia dell’arte. In questo teatro di pietre senza tempo, di forme plastiche sagomate a tutto tondo dalla schiuma del mare e dal vento, egli ha scoperto la possibilita di rivelare momenti sublimi e visionari, e l’intangibile innocenza della materia primigenia di cui è fatto il mondo.
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