Critica | Mario Luzi

LUZI
presentazione della mostra "Quanto manca a Gerusalemme", Palazzo Florio, Università di Udine - 1998
Nino Lupica ama cimentarsi con opere letterarie esemplari: Dante, Baudelaire, per esempio. Non si tratta di esornazioni pretestuose o di immagini a latere. La forza di compenetrazione nella sostanza poetica dei testi è in lui rapinosa. L’impatto e poi l’assunzione come suo proprio dramma del nucleo vivo di quei capolavori sono addirittura travolgenti. Questo non significa affatto che Lupica si butti alla cieca, su un impulso immediato in un’avventura non preveduta e tentacolare; al contrario vuol dire che l’intensità di pensiero e di immaginazione accesa dal testo dell’opera è tanto profonda e forte da catturare integralmente la sua esuberanza inventiva. Questa, è bene osservarlo fin d’ora, si manifesta come energia di un linguaggio prevalentemente interiore, pur essendo dotata di specialissime risorse cromatiche e grafiche e, perchè no, connotative. L’interiorità di Lupica è allo stesso tempo meditativa e impetuosa. Nessun tema le potrebbe convenire più del Llanto por Ignacio Sánchez Mejías di García Lorca. Si tratta, lo si avverte alla prima, di una ispirazione felice perchè nella sua narratività sincopata e concitata incontra subito, direttamente, il dinamismo, che potremmo definire organico, di Lupica. La eccezionale corrispondenza dell’episodio di tauromachia sul punto di venire epos e mito con la drammaticità implicita della scrittura potenzia la qualità della prova. Ma l’osservatore si rende conto ben presto che la pur bellissima e lacerata teoria di immagini fedeli al fatto non si propone in se ma investe di un diffuso potere simbolico che è nel fatto stesso così come viene tramandato: e che all’interno di questo circuito si arroventa il furor di Lupica. In effetti due colluttazioni simultanee si intrecciano nella sequenza di queste pagine: la prima è tra il toro e l’uomo, l’altra tra l’uomo e se stesso. Il toro come bruta violenza è ancora una alterità minacciosa. Il toro come cieca massa avversa di materia una pericolosa aggressione. Ma questo fronteggiarsi è solo un primo volto del dramma. Il toro a un certo punto è l’oscuro, il male: e in questo aspetto è presente nell’uomo e non solo nell’animale. Il combattimento è incerto, le parti si invertono. Ecco che il toro è l’innocenza primordiale e fatale, mentre tutta la perfidia del mondo rifluisce nel suo antagonista. Una vicenda, anzi un principio cosmico si risveglia in questi vigorosi grovigli di nerore che mutano di tavola in tavola il proprio epicentro: la lotta intestina dell’universo ha aspetti instabili e mutevoli e Lupica li assume profondamente nel suo forte, elegante linguaggio, ne è succube e signore mediante lo stile e la maestria del tratto.
Presentazione al volume Spleen 1994
Gli inferni di Baudelaire restano nella memoria e vi operano le loro indefinibili alchimie più di quanto prendano alla gola nella diretta lettura dei passi dai quali tralucono. Si tratta certo di un epicentro del mal, ma proprio per questo coinvolgono come in un profondo risucchio ogni senso e ogni tensione che avvivano il cosmo poetico delle Fleurs e dello Spleen de Paris. La severità etica e la misericordiosa vicinanza, quasi complicità, della dannazione non comprimono la miscela insinuante di perfidia, di voluttà, di elezione e di beatitudine che promana dalla città baudelairiana e avvolge i suoi cives, tutti, incluso il poeta testimone-attore. Gli Inferni di Baudelaire non sono separati da nessun altro sommovimento di senso e visione: essi sono in mezzo agli uomini, alle donne, alla vita e al suo movimento, partecipano del suo caotico ordine. Perché un ordine c’è, non rispettato né osservato: e su questa infrazione è leggibile il satanismo – come causa e come effetto – il che lascia aperta e moltiplica la nostalgia e la volontà di un ordine nell’armonia, mai dimenticata. Negli Inferni di Baudelaire non c’è forse speranza, ma c’è nostalgia e c’è desiderio. E dunque non sono l’Inferno. Nino Lupica, superiore grafico di fantasia barocca, patetico, forte, vorticoso e leggero entra con decisione e con rapimento in questa materia ambigua e bruciante. È tanto intelligente e tanto felice da investirla con il suo ritmo impetuoso proprio nella sua ambiguità, nel suo sperdimento; per cui l’Inferno è prossimo forse contermine con le beatitudini del Paradiso. In alcuni suoi dinamici tortiglioni semifigurali, affollati comunque di anima, il movimento è insieme discendente e ascensionale: si è indecisi se il culmine dell’immagine è la cupola del cielo, l’ingresso della Candida Rosa oppure il boccaporto di Lucifero. Trovo che pochi artisti abbiano come Lupica non illustrato o commentato ma assunto come proprio il tema nel processo stesso del suo autodefinirsi. A mio avviso, un accadimento folgorante, un raggiungimento magnifico.
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