Critica | Stefano Verdino

VERDINO
Tra ombra e luce, tra macchia e bianco. I versi di Luzi, il segno di Lupica. Nino Lupica non è certo nuovo al rapporto con la poesia di Luzi; a parte la cartella per la poesia Sanguis meus… da Sotto specie umana e altre imprese comuni nel nome di Baudelaire e Garcia Lorca, il precedente più connesso a questo libro di disegni e poesie è il Quaderno Gotico che Lupica realizzò oltre quindici anni fa. Allora si trattava di ispirarsi ad uno dei canzonieri d’amore novecenteschi a più alta temperatura di febbre e l’energia del segno di Lupica provocò una sequenza di vertiginosa declinazione dell’immagine, davvero suggestiva. Oggi la scommessa è diversa: altro libro è il Simone Martini, infatti il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (edito da Garzanti nel 1994) costituisce una novità d’impianto nella poesia di Mario Luzi: questa volta il mobile e frammentario poema ha anche l’andamento – non sistematico, ma costante – del poema narrativo. Racconta l’immaginario ultimo viaggio da Avignone a Siena di Simone Martini, il grande pittore gotico, da sempre caro a Luzi ed evidente transfert dell’autore medesimo o meglio del suo più intimo desiderio, nella volontà di fare un bilancio e proporre un congedo del proprio lungo “viaggio terrestre” e della sua tensione verso il “celeste”, di interrogarsi sul rapporto tra l’arte e l’artista, infine di manifestare in pieno la poesia della luce, che tanto caratterizza l’opera pittorica del maestro trecentesco. Simone compie questo viaggio in una carovana medievale, dove vi sono la moglie Giovanna e l’altra congnata dello stesso nome; compare anche un’Abesse di un monastero in cui provvisoriamente riposano; tre diverse declinazioni del femminile, la prima ingemmata – come una figura gotica – “nella mandorla / di un perpetuante mito”, afflitta invece la seconda da un accesso di pazzia, dalla “demenza che deflagra”, mentre la suora dalla “mente franca” ma “difettiva” “d’umiltà, di pace, di misericordia” è esempio del rigore dell’intelligenza. Ultimo personaggio è l’etudiant, immaginario studente in teologia che si accompagna al viaggio ed è alter ego del poeta che “entra ed esce dal racconto” con la sua interrogazione ontologica. Di questo libro Lupica ha fatto una sua personale antologia, rimanendo colpito da alcuni testi e versi, che hanno stimolato la sua ispirazione, ma all’interno di un progetto condiviso con il testo luziano, che è quello che dà il titolo al volume: il viaggio, la luce. Sono temi che giustificano appunto il progetto ed il taglio sequenziale dei disegni dove a più riprese ritroviamo ricorrenti simulacri d’ombra (umana) in prospettiva più o meno lontana, a precisa e assai felice interpretazione visiva di un motivo luziano, quanto mai centrale, che connette la sequela della genia umana nel viaggio nel tempo, non meno che nello spazio (per non dire nel viaggio dell’interiorità). Giustamente Lupica ha scelto il bianco-nero per i suoi disegni, si è privato della morbidezza del colore, che pure magistralmente usa. “Bianco e nero”, dice “come il libro, con le parole in nero e il bianco della pagina”. E’ una scelta di essenzialità, che gli consente una molteplicità di sovrasensi, in quanto il bianco e nero vuol dire anche luce e ombra, pieno e vuoto, e questi in una piena rovesciabilità che sa molto dell’interrogativo aperto e ossessivo della poesia luziana. In questa misura di essenzialità congiunta all’intenso naturalmente Lupica ha evitato ogni suggestione illustrativa, che poteva essere suggerita dall’argomento, riguardante un pittore (e che pittore) e il suo tempo. Ma egli ha scelto di puntare come si dice al cuore, a quella mutevole e continua presenza di macchia e bianco, di ombra e spazio, che il libro gli offriva. La macchia di intenzionalità umana è la grande protagonista di questa vicenda figurativa, in diverse attitudini: o nei multipli lumi che avvisano di una comune sorte, o nei singoli tracciati di momenti individuali, spesso di estrema intensità come la figura dolente della tavola 26, con quella piena evidenza di una mano in abbandono. La macchia umana di Lupica sembra spesso gravata e china, come sotto peso di un fardello, e certamente l’artista evidenzia molto il lato anche drammatico del poema luziano, ma in ogni caso è ben chiaro che si tratta di un dramma che si pone come interrogativo e quindi anche apertura, non incavato nella cecità, ma aperto nello spazio e nel dinamismo della linea e del segno. Anche quando Lupica più si cala – e sviluppa – nei cupi risvolti dell’oscuro che il poema luziano attraversa (in particolare la figura delirante dell’altra Giovanna; il grumo di cecità in ipotesi figurative di Simone), il risultato è certamente un quadro compositivo indubbiamente convulso e teso, ma mai opaco. Vi è sempre una vibrazione, che ben si contrappunta alla caratteristica mobilità e dinamica del verso luziano, che a sua volta sonda l’aperto e il bianco della pagina.
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